Ascoltare i figli, anzi ascoltare in generale, non è cosa semplice. E’ tuttavia molto importante esercitare la pratica dell’ascolto se vogliamo che i nostri bambini imparino a confidarsi con noi, ci raccontino cosa succede loro e cosa li fa stare male. Molti genitori si lamentano del fatto che il loro figlio o la loro figlia non parla con loro, tronca la comunicazione con un semplice “tutto bene” oppure “non abbiamo fatto niente”. Questi stessi genitori però non sanno che possono aver avuto un ruolo nel generare una situazione di chiusura simile. Può essere che quando i bambini hanno cercato di confidarsi, hanno ricevuto critiche o consigli non richiesti o adeguati. Sebbene l’atteggiamento di chiusura possa essere tipico di alcune fasce di età come l’adolescenza (leggi anche “Perché mio figlio adolescente ha paura di stare da solo la notte?“), è importante non dimenticare mai che i figli, per potersi aprire hanno bisogno di fidarsi di quella persona; per fidarsi hanno bisogno di sentire che non verranno giudicati o criticati, bensì ascoltati. Cosa significa quindi ascoltare?

Ascoltare i figli non equivale a sentirli

Spesso le mamme o i papà hanno la buona intenzione di ascoltare i loro figli, ma in realtà quello che stanno facendo è semplicemente sentire quello che dicono. “Ascoltare” è molto di più di stare a sentire, è un processo attivo, un’arte che si apprende nel tempo e che permette di amplificare il nostro modo di vedere il mondo migliorando le nostre relazioni interpersonali. A questo proposito vi suggerisco di leggere il libro “Arte di ascoltare e mondi possibili” di Marinella Sclavi.

Per farvi comprendere meglio in pratica cosa significhi ascoltare i figli e, quindi, farli sentire ascoltati, voglio riproporvi un esempio che ho letto nel libro “Violenza assistita, separazioni traumatiche, maltrattamenti multipli” di Roberta Luberti e Caterina Grappolini, Edizioni Erickson.

L’esempio riguarda il racconto di un counselor che gestisce uno sportello dedicato all’interno di una scuola. Lui spiega che inizialmente accoglieva gli adolescenti, li ascoltava senza fornire spiegazioni, indicazioni e consigli e alla fine del colloquio riassumeva i punti più importanti. Infine diceva: «Prova a pensarci su, poi la prossima volta ne riparliamo».  Facendo così, però, si è accorto che i ragazzi poi non tornavano: il professionista stava dando al giovane il compito di mettere in discussione le proprie idee, mentre lui non si stava mettendo in discussione. Così cambiò la frase e alla fine diceva: “Queste sono le cose importanti che mi hai detto. Voglio provare a pensarci un po’ su. La prossima volta ne riparliamo». In questo modo il compito di riflettere ricadeva sul counselor e ai ragazzi passava il messaggio “Tu mi dici delle cose importanti, meritevoli di essere pensate. Tu vali. Ti terrò nella mia mente.” Questo nuovo atteggiamento faceva sentire i ragazzi realmente ascoltati e presi sul serio, cosa che ha favorito in loro la disponibilità ad un’autoriflessione.

Questo è un esempio tratto da un rapporto professionale, però anche un genitore può prendere spunto per qualche piccolo cambiamento: può tentare di spostare maggiormente il focus della sua attenzione sui racconti, sui pensieri ed emozioni dei figli, può provare a rinunciare più spesso al proprio punto di vista per concentrarsi su quello dei bambini o ragazzi, impegnandosi a restituire loro un’immagine positiva, piuttosto che difettosa. In questo modo si sostiene anche la loro autostima.

Per ascoltare i figli occorre essere genitori autorevoli

Per far sì, quindi, che un figlio si senta ascoltato occorre essere genitori autorevoli, cioè adulti credibili che cercano di ascoltare senza giudicare, che cercano di comprendere il loro punto di vista senza però rinunciare al proprio ruolo di adulto. Riprendendo le parole del libro che ho citato precedentemente, i bambini o i ragazzi “parlano se sentono che l’adulto li stima ed è in grado di valorizzare le loro capacità di pensiero, di «tenerli nella mente» senza fornire immediatamente spiegazioni, indicazioni e consigli”. Si tratta di un percorso di miglioramento non facile ma sicuramente promettente.

Dott.ssa Serena Costa, psicologa dell’infanzia (serenacosta.it@gmail.com)

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